50 anni da veniva pubblicato Wish you were here, uno dei capolavori dei Pink Floyd. Un album controverso che, ancora oggi, viene ascoltato con passione e curiosità
“Il mio personalissimo approccio con i Pink Floyd avvenne a soli 11 anni, dopo avere ricevuto in dono la cassetta tarocca di Wish you were here che seguiva l’acquisto di un piccolo registratore marca Midland International, in un grande magazzino di Prato, probabilmente della Standa. La registrazione era molto, troppo, artigianale, ma i suoni e gli arrangiamenti mi rapirono ugualmente, stregandomi definitivamente. Non capìi immediatamente che quella musica era buona, anzi superba, ma un amico di musicista di almeno 9 anni più grande mi fece notare che ero sulla strada giusta e mi disse: “Se ascolti i Pink Floyd a quest’età, di quale musica ti potrai nutrire da grande? Continua così. La risposta è semplice: quello era già il top, non sarei (quasi) potuto andare oltre l’inarrivabile. Mesi dopo quella ‘illuminazione’ scoprìi, per caso, che una parte di un pezzo dell’album era finito anche in tv (allora si chiamava televisione), come colonna sonora di un originale televisivo (oggi si parlerebbe di fiction): era il 1976 e il titolo era Manon, di Antoine F. Prevost, con la sceneggiatura di Luciò Mandarà e la regìa di Sandro Bolchi. Nel cast una giovanissima Monica Guerritore. Vennero trasmesse tre puntate, fra il 14 ed il 28 novembre 1976. Il pezzo che faceva da colonna sonora era al centro fra le parti 1 e 5 di Shine on you crazy diamond. Un ricordo da brividi.
UNA DATA LEGGENDARIA – Il 12 settembre 2025 scadono i 50 anni dalla pubblicazione di quell’album, che seguì di circa 30 mesi la pubblicazione del capolavoro The dark side of the moon. Cosa si sarebbe potuto inventare un gruppo musicale, non per superare quei livelli di qualità e di successo, ma quantomeno per avvicinarli? Ci voleva un album stratosferico, la sublimazione della musica psichedelica e avanguardista in un’epoca in cui genio e talento si sprecavano. Ma anche in un periodo storico nel quale la creatività era ai massimi livelli: non c’erano i computer, ed i suoni erano parecchio artigianali; bisognava arrangiarsi, inventare, costruire sonorità futuribili.
UN ADDIO TRAUMATICO – Ecco, dunque, Wish you were here, nato quasi come un atto di devozione e riconoscenza dei Pink Floyd al loro fondatore Syd Barrett, che aveva indicato la strada nei primi due lavori The piper at the gates of dawn e A saucerful of secrets, usciti rispettivamente nel 1967 e 1968, ma poi ingoiato dai suoi stessi tormenti, fino ad approdare in un limbo opaco e, chissà, forse pure privo di suoni. L’uso di droghe, la pazzia latente e poi sempre più tangibile, lo escludono dalla strada verso il successo intrapresa dal quartetto. Tutto avviene Il 26 gennaio 1968, nell’imminenza di una tournée, alla vigilia di un concerto programmato a Southampton: esasperati dai comportamenti sempre più sopra le righe, del tutto incontrollabili, del leader, che non è più capace di stare sul palco, né di seguire le tematiche dei concerti, Nick Mason, Richard Wright, David Gilmour e Roger Waters, decidono drasticamente di lasciarlo a casa. E così, Barrett salta l’appuntamento e sprofonda dentro i propri incubi: nel 2006 morirà. Per i Pink Floyd, però, la sua presenza resta incombente, quasi reale. Syd diventa un fantasma e forse anche per questo la band decide di regalargli quel Wish you were here, dedicandoglielo. Un atto d’amore, di riconoscenza o un modo per scrollarsi di dosso dei sensi di colpa? Un enigma senza risposta anche a 50 anni dall’uscita di quel capolavoro che oggi, grazie alle nuove tecniche, si può ascoltare nella versione rimasterizzata, in alta qualità, a 24 bit e 192 khz, rispescando una profondità di suoni e dei dettagli mai sentiti prima. Wish you were here diventa un inno all’abbandono. Il nono album dei Pink Floyd viene registrato nel 1975, sulla scia delle perenni onde psichedeliche che animano la band, consacrata dal successo dell’album precedente e da una crescente, irrefranbile ispirazione. La chitarra di David Gilmour, il ‘lavoro (anche sporco)’ alle tastiere dell’ex jazzista Wright sono i pilastri di un successo che si mescola con il genio di Waters e la pragmatica batteria di Mason. Tornare in studio dopo essersi immersi nelle ‘suggestioni gotiche della luna’, non è semplice. Alcuni brani, però, sono stati lanciati nella tournée che precede il ritorno negli studi di Abbey Road: il tema dominante nel brano che dà il titolo all’album, e il cui testo venne scritto da Waters, è l’assenza: di Syd o, forse, del padre dell’ingegnoso bassista morto in guerra.
. O ancora, chissà, all’assenza della moglie – l’amica d’infanzia Judith Trim – dopo un matrimonio andato da poco in frantumi. Più tardi, nel doppio The wall, Waters ribadirà il concetto dell’alienazione che sbriciola i rapporti; una tematica che, paragonata all’oggi, appare come un messaggio profetico quanto inquietante e ammonitivo. Syd, però, resta il ‘diamante’ di Shine on you crazy diamond, il perno attorno al quale ruota un’opera che qualcuno ha pure definito imperfetta rispetto al primo concept Atom heart mother, uscito nell’ottobre del 1970, o allo stesso The dark side of the moon. Resta il fatto che Wish you were here, secondo lavoro che segue un singolo tema, contiene una delle canzoni più belle della storia della musica mondiale, ma soprattutto uno dei riff più suonati e imitati da quando esiste l’elettronica.
VISIONI E MATERIALIZZAZIONI – Ma c’è molto altro che ruota attorno all’album: qualcosa che sta a cavallo fra le visioni oniriche e un’anelata realtà. Ci sono le immagini di un ragazzone corpulento, rasato nei capelli e nelle sopracciglia, che si aggira nei mitici studios. “Chi lo ha fatto entrare? Chi è?”, si chiedono tutti, durante le sessioni di registrazione? Il tizio sta seduto, pacioso, in mezzo a loro: sta ascoltando un take di Shine on you crazy diamond, ma nessuno osa identificarlo. Ad un certo punto, il tizio chiede: “Quando arriva la mia chitarra?”. È a quel punto che Gilmour lo riconosce, mentre Waters prova a includerlo quantomeno nelle impressioni a cuore aperto sul progetto che sta per nascere. Il tizio è Syd Barrett, un deformato Syd, che subito dice la sua: “Suona un po’ vecchio”. Una vendetta? Era ancora in preda alle allucinazioni del Brylcreem? Oppure dei funghi mangiati nel giardino dell’orto botanico di Cambridge e coltivati dal padre, il patologo Max Barrett? La sua presenza trasmette colpa e pentimento, innesca meccanismi che fendono gli animi, frantumando perfino quell’idea di successo che, a quel punto, non basta più.
REGISTRAZIONE – Non era cominciata sotto i migliori auspici: un duro colpo, alla vigilia dell’inizio della registrazione, era arrivato dall’addio dello storico ingegnere del suono Alan Parsons, divenuto ‘Project’, che aveva preferito inerpicarsi su percorsi personali più soddisfacenti. Il genio del mixer era stato sostituito con Brian Humphries, che aveva lavorato al fianco dei ‘Pink’ alla registrazione – avvenuta nei Pye Studios – della colonna sonora-album More, qualche anno prima. Una scelta per quanto naturale, ma azzardata, che non portò tuttavia i frutti sperati, dal momento che l’inesperienza di lavoro con il gruppo fece sentire il proprio peso, al punto che lo stesso Humphries finì per rovinare la traccia strumentale base di Shine on you crazy diamond, perfezionata con un lavoro di ore da Mason e Waters, ma in seguito costretti a registrarla una seconda volta.
CURIOSITÀ – Si diceva di Richard Wright: la magìa e la delicatezza delle sue mani, che scivolano sui tasti come solo quelle di un jazzista di razza. Come nell’album precedente non manca l’incanto delle sue intuizioni e l’ampio utilizzo dei sintetizzatori, come nel caso dell’EMS VCS 3 che caratterizza Welcome to the machine, il brano che riesce a creare atmosfere cupe e asfissianti, ponendo chi lo ascolta in una sorta di angoscia perenne. L’addolcimento che arriva dalle chitarre acustiche contribuisce a “schiarire l’aria ed a ristabilire un minimo di pace interiore”.
COPERTINA – Ancora una volta i Pink Floyd si affidano, per la realizzazione, allo stile ed al genio di Storm Thorgerson, dello studio Hypnosis, che aveva pensato la formidabile cover di The dark side of the moon. La tematica dell’assenza doveva in qualche modo essere riprodotta e Barrett c’entrava fino ad un certo punto. La prima idea fu quella di imitare i Roxy Music che, nell’album Country life, ricoprirono la cover con un cellophane verde in modo da censurare due ragazze forse troppo scollacciate per l’epoca; al grafico venne in mente di replicare l’iniziativa, ma con un cellophane nero opaco. I brani Welcome to the machine e Have a cigar suggerirono, invece, qualcosa di più avveniristico, come la stretta di mano fra due robot. Ma la copertina vera e propria s’ispirò all’idea delle persone di nascondere le proprie malefatte, per paura di rimanere scottati (un po’ di pudore a quel tempo esisteva): si concretizzò nell’immagine di due manager che si stringono la mano, mentre uno dei due va a fuoco. Per la foto di rito vennero ingaggiati due stuntmen di Hollywood, Ronn Rondell e Danny Rogers: teatro dell’immagine i Warner Bros. Studios, a Los Angeles. Ma il vento rischiò di mandare tutto all’aria e di provocare una tragedia: soffiò, infatti, dalla parte sbagliata, con le fiamme che lambirono il volto di Rondell, al punto di bruciare i suoi baffoni. I due stuntmen cambiarono posizione e la foto fu scattata, con buona pace della malasorte.
VIAGGIO NEL TEMPO – L’album rimane una delle icone della musica e non a caso la nona opera dei Pink Floyd raggiunse la vetta delle classifiche dei dischi più venduti in 12 Paesi: Australia, Croazia, Finlandia, Francia, Grecia, Italia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti e Svizzera. Fu il primo a ritrovarsi in testa contemporaneamente negli Usa ed in Gran Bretagna. Per Gilmour e Wright è l’album del cuore, non per Waters e Mason, ma tant’è. Tutt’ora è al 264/o posto della lista dei ‘The 500 greatest album of all time’, pubblicata dall’eminente rivista Rolling Stone.
COLPO DI TOSSE – L’introduzione di Wish you were here venne registrata nell’auto di Gilmour, mentre spostava la manopola delle stazioni radio: si può, ad un certo punto, percepire il finale della Sinfonia numero 4 di Čajkovsij. Ma non è tutto: durante la registrazione in studio, l’effetto-radio si abbassa fino a diventare un sottofondo e lasciando spazio alla voce di Gilmour, che parte con la ‘sua poesia’. “Pensi di saper distinguere l’inferno dal Paradiso? I cieli azzurri dal dolore? Sai distinguere un prato verde da un freddo binario d’acciaio?”. Il capolavoro in musica e parole viene, tuttavia, intralciato da un piccolo ‘contrattempo’, da un’imperfezione causata da un leggero colpo di tosse – quasi impercettibile – di cui praticamente nessuno si è mai accorto, ma che i tecnici lasciarono inciso, di Gilmour. Lo stesso chitarrista si arrabbiò così tanto da decidere di smettere di fumare per sempre. E, probabilmente, fece bene.
ADOLFO FANTACCINI








