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Al Cinema,”Un film fatto per Bene”di Franco Maresco

Cosa c’è di più insensato e contraddittorio della vita? Forse soltanto il tempo e il mondo in cui viviamo. Si potrebbe riassumere in queste due frasi l’approccio al cinema, e più in assoluto all’esistenza, di Franco Maresco. Nessuna possibilità di significato né di salvezza, nessuna eventualità di miglioramento; solo un dramma costante che l’istinto chiede di raccontare e che le nevrosi cristallizzano in un presente sempre uguale.

Di queste contraddizioni Maresco ha scelto di farsi tramite durante tutta la sua carriera artistica disegnando una parabola che, se in un primo momento poteva far intravedere i contorni della critica sociale o quanto meno del gesto di stizza contro la società, con il passare del tempo ha palesato un tasso di disillusione sempre maggiore. È così che il regista palermitano ha cominciato a prendere le distanze dal cinema. La forma filmica è stata prima assaltata (Lo zio di Brooklyn), poi crocifissa (Totò che visse due volte) e infine vivisezionata (Il ritorno di Cagliostro), mentre il percorso parallelo di impianto metacinematografico germinava silenzioso (Enzo, domani a Palermo!, Come inguaiammo il cinema italiano).

Il punto di arrivo di questo percorso non poteva che essere la decostruzione del racconto. E se è vero che già i precedenti Belluscone e La mafia non è più quella di una volta sembravano andare in questa direzione, il processo non poteva dirsi del tutto completo a causa di un rapporto ancora parzialmente pacifico con l’immagine, la scrittura, i tempi. Ma quando tutto ciò viene sovvertito, quando la crisi psichica dell’individuo, quella del sistema-cinema e quella del mondo civilizzato si incrociano in un allineamento astrale capace di far precipitare ogni cosa, è in quel momento che si può raggiungere l’apoteosi (letteralmente). 

Un film fatto per Bene presenta allo spettatore le vicende che ruotano intorno a un film progettato, in parte girato, ma mai concluso, su Carmelo Bene. La scelta del personaggio non è casuale, e lo stesso Maresco sembra spiegarla nel lungo monologo che accompagna la carrellata sulle tombe a parete di un cimitero palermitano. Ciò che conta, però, non è l’oggetto. Perché ad essere messo sotto i riflettori è appunto quel coacervo di contraddizioni di cui la vita è contenitore e il cinema ambisce a proporsi come risolutore. Da qui la serie dialettica tesi-antitesi su cui si struttura l’opera: da un lato la persona che ha scritto il film, dall’altro l’impossibilità di ricostruirne la struttura; da un lato l’ossessiva mania di controllo che regola ogni azione, dall’altro l’anarchia della fuga; da un lato la scelta della forma-documentario per restituire la verità di qualcosa che è stato recitato, dall’altro la finzione mockumentary della recitazione per ritrarre ciò che è realmente accaduto; e infine la più clamorosa: da un lato la scelta di apparire finalmente sullo schermo (dopo decenni di costruzione di un profilo artistico che si definiva prima di tutto per la sua assenza, per il suo stare fuori dall’inquadratura), dall’altro l’opzione tattica di farlo nella fuga, nello sgusciare tra i ricordi. Perché questo è un film soprattutto di ricordi.

Ma ridurre l’intero complesso di temi che Maresco porta sullo schermo a semplici coppie in opposizione può risultare semplicistico. La complessità dell’esistenza, con la sua fatica e il suo carico di sofferenza, si determina come tale proprio a partire dall’impossibilità di una semplificazione. Le tragedie si accavallano, le contraddizioni si sommano, e così anche i tentativi di venirne fuori, di risolvere, di comprendere, risultano inutili se non addirittura controproducenti. Il film su Carmelo Bene Maresco inizia a girarlo, ma poco dopo – come spesso gli accade – si impantana entrando in conflitto con una produzione (Lucky Red) incapace di sostenere la sua autonomia artistica anche da un punto di vista economico. Maresco scappa, sparisce letteralmente e Umberto Cantone si mette ad inseguirne le tracce, ricostruendo parallelamente la storia del film e il profilo artistico del regista. Un film fatto per bene è, infatti, a tutti gli effetti il testamento cinematografico di Franco Maresco. Non nel senso di lascito agli eredi, quando piuttosto di coccodrillo autoprodotto, di biografia pronta per il domani in cui non si sarà più presenti e scritta con le proprie mani, per evitare che possano essere quelle degli altri – certamente meno ironiche – a scriverla. 

Nell’articolarsi tra le strade sporche e desolate e nel richiamare all’appello le maschere-vittime ormai celebri (Francesco Puma, Saverio D’Amico, Ciccio Mira), il film propone l’ennesima contraddizione riaffermando e al contempo negando l’immagine di Palermo come «luogo ideale per l’apocalisse». Si tratta però di una negazione effimera, poiché a definirla come tale non è la trasformazione in positivo della città, ma la tragica constatazione di un fatto: l’apocalisse è già avvenuta.

Franco Maresco supera, allora, se stesso e stratifica ulteriormente il discorso. Racconta di un film che non c’è, costruito su un attore che non c’è, fallito a causa di regista che non c’è. E dedicando l’opera a un critico che non c’è (più), Goffredo Fofi, prova anche a mettere in luce come il fallimento dell’arte proceda di pari passo alla sparizione di chi è in grado di comprenderla. Perché se è vero che il film su Carmelo Bene non ha avuto dei produttori all’altezza, difficilmente avrebbe potuto avere un pubblico all’altezza. Questa stratificazione trova espressione anche nelle scelte estetiche, nella costante oscillazione tra colore e bianco/nero, tra digitale e pellicola, tra inquadrature costruite e spezzoni rubati, mentre i riferimenti rimangono quelli di sempre: Ford, Pasolini, Man Ray.

La conclusione del ragionamento è uguale al punto di partenza. La questione dell’autorità, del potere, che Maresco vive da entrambe le collocazioni (regista che priva i suoi attori di ogni tipo di libertà, ma che è a sua volta privato di ogni libertà dall’economia del cinema), diventa una lotta in cui non possono esserci vincitori né vinti. L’unica possibilità è la fuga, in volo, come nelle battute iniziali dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij, per elevarsi oltre le umane contingenze, rifiutando tutto e tutti. Per sempre.

Recensione di Mauro Azzolini


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